Parigi: monnezza adieu!

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Finalmente due giorni fa, Parigi si è svegliata all’alba con un fragore tipo carrarmati in strada. I miei gatti erano impazziti e nel dormiveglia io neppure mi raccapezzavo in mezzo a tutto quel baccano. In realtà avevano cominciato a raccogliere le montagne di sacchi dell’immondizia che giacevano, a mo’ di barricate, in quasi tutte le strade della città.

Non con dei normali camion della nettezza urbana, bensì con delle gigantesche pale meccaniche che raschiavano il fondo dei marciapiedi, con un rumore da far venire la pelle d’oca.

Alle cinque e mezzo di mattina quindi, abbiamo tutti aperto le finestre e ci siamo affacciati, in tenuta da notte, data l’ora. Le mie dirimpettaie esibivano camicie da notte di seta con pizzo, nonostante facesse un freddo becco, mentre io mi sono affacciata intabarrata in un bel pigiama di flanella perché, a differenza del palazzo di fronte, i miei coinquilini sono tutti ossessionati dal risparmio energetico e da noi si battono i denti. Nonostante la situazione anomala e l’orario insolito, eravamo tutti sorridenti e ci scambiavamo strizzatine d’occhio di complicità da un balcone all’altro, sguardi al cielo da visione mistica (Era ora!), ammiccamenti di gioia e di liberazione che non provavamo da anni. Qualcuno, alla vista di certe signore in tenuta succinta e sexy, ammiccava pure facendo il provolone con la vicina, con discrezione però perché la moglie o il marito erano in agguato.  Insomma, era la scena da fine guerra dove gli alleati irrompono per le strade perché è tutto finito e alla gente euforica è consentita qualsiasi cosa.

E come per occasioni come quelle, nessuno di noi ci credeva veramente a tutta quell’improvvisa pulizia. Sicché ci siamo messi addosso un bel cappotto, molti direttamente sul pigiama, e siamo scesi a vedere se davvero si fosse compiuto il miracolo. Sembravamo l’armata Brancaleone, senza le signore sexy naturalmente, che erano rimaste sui balconi ad intonare la Marsigliese.

I proprietari dei cani sono stati tra i primi a scendere, dato che le bestiole, eccitate da tutto quel rumore, non la trattenevano più e i padroni si sono detti che tanto valeva farli uscire una volta per tutte. E sono stati proprio questi animali a mostrarsi disorientati di fronte al cambiamento del paesaggio: non c’era più un cumulo di spazzatura su cui alzare la zampa e indispettire i cani che sarebbero passati dopo, seminando intriganti effluvi mescolati all’odore della monnezza. I proprietari, come sempre avviene, si immedesimavano nei cani e si affrettavano affinché i propri quadrupedi potessero marcare per primi il territorio, ridisegnando le zone di potere. Dei padroni, naturalmente: i cani in quelle circostanze, pensano solo a liberare la vescica. Certo un po’ gli seccava che avessero ripulito tutto perché ora gli sarebbe toccato raccattare le cacche dei loro amici pelosi, cosa che non avevano fatto durante lo sciopero degli spazzini. Fin li, si erano giustificati dicendosi che tanto il livello di igiene della città non sarebbe peggiorato per una cacca di cane in più, se non fosse che lo sciopero della nettezza urbana è durato più di tre settimane e che, se moltiplicate le cacche per il numero dei cani del quartiere per 25, fa almeno un altro mucchietto di escrementi equiparabile ad un paio di cassonetti.

Le benne dei netturbini procedevano intanto con estrema lentezza, data la quantità di pattume e, consci del loro potere in quel momento (sapevano di averci in pugno), gli operatori si concedevano pure degli scherzetti, tipo lanciare qualche sacco lacerato di pannoloni usati sui parabrezza o graffiare con le ramazze le macchine parcheggiate, sotto gli occhi esterrefatti dei proprietari, che però si guardavano bene dal protestare. Sarebbe bastato un niente, una fronte corrugata in segno di disapputo e quelli, i netturbini, avrebbero potuto rovesciare di nuovo tutta l’immondizia per strada.

In fondo, era una strisciata in cambio di una città nuovamente pulita e, si sa, i francesi hanno un forte senso civico, tranne quando decidono di fare la rivoluzione.

I più scocciati erano i portieri degli immobili che, a parte dedicarsi alle composizioni di enormi discariche artistiche durante gli scioperi, avevano perso l’abitudine di portare fuori le poubelles (i cassonetti) dei rispettivi palazzi e poi a ritirarli e lavarli (il merito della pulizia e dell’ordine in questa città va tutto a loro). Però hanno ripreso subito la mano e nel quartiere si è immediatamente riaccesa la gara, nonché le scommesse,  tra chi avrebbe esibito i cassonetti più ordinati e lucenti.

Perché camuffare i propri rifiuti in questa città è un’arte e Parigi ne va fiera, memore che in fondo, storpiando il latino, munda poubella semper pulchra est!

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PARIGI VAL BENE UNA … MONNEZZA

(Foto: Laura Cipolleschi)

I francesi se la tirano e fanno tanto gli splendidi con le loro città fleuries (piene di fiori), i trasporti verdi, i micidiali monopattini e i velò sfreccianti a emissioni zero, e credono di stare sempre un passo avanti rispetto alle altre mediocri città europee, soprattutto Roma. Ma c’è una cosa che hanno sempre invidiato alla nostra capitale e che non hanno mai osato confessare: le strade piene di monnezza.

Finalmente, uno dei tanti scioperi in corso in questi giorni ha finalmente smascherato questa loro frustrazione di avere sempre le strade pulite e i cassonetti nascosti nei cortili.

I portieri,addetti ai secchi delle immondizie, hanno finalmente potuto esibire le loro fantasie e il loro senso decorativo nell’accumulo prolungato della spazzature sui marciapiedi e si sono accese sfrenate competizioni tra di loro al punto che i cittadini, ogni mattina, possono ora assistere a molteplici composizioni di sacchi delle immondizie che cambiano ogni giorno, un po’ come gli orologi floreali che vengono ritoccati prima dell’alba. Credo stiano istituendo anche un concorso sugli immondezzai urbani più originali (sapete com’è, i francesi amano i concorsi e le classifiche di ogni cosa).

All’inizio è stato solo un accumulo selvaggio, contro i muri, dove in genere vengono allineati i contenitori verdi.

Poi si è passati a spostare i suddetti sacchi, che nel frattempo aumentavano di numero, allineandoli ai bordi dei marciapiedi, creando così una sorta di trincee per far passare la gente frettolosa, per via dell’odore, e dove magari i ragazzini potessero anche giocare a spararsi, da un marciapiede all’altro, con pistole giocattolo e non, al riparo anche dai più temibili dei proiettili. I genitori si sono sentiti rincuorati.

Che ve lo dico a fare, si è perso ogni concetto di raccolta differenziata, anche perché le composizioni solo di scarti alimentari erano di gran lunga più scarne e deperibili di quelle abbellite con cartoni, bottiglie di plastica, vetro e imballaggi alimentari.

Certo è che i più sensibili, si sono posti la questione di quanta monnezza si produca, proprio in termini di plastiche e contenitori. Sicché, dopo qualche giorno di quello spettacolo catastrofico, è bastato andare in un negozio bio per vedere come stanno cambiando le abitudini dei francesi civili.  Queste persone hanno cominciato a portare con loro sacchetti usati che si rompono appena usciti dal negozio, con frutta e verdura che rotola e si unisce ai mucchi, creando composizioni che Arcimboldo morirebbe di invidia. In seguito, per fare la spesa, uomini e donne hanno tirato fuori giacche e gilet piene di tasche, un po’ come i cacciatori, per poter sistemare gli acquisti senza usare imballaggi, tipo banane, ciuffi di porri e persino i formaggi (ma dopo la giacca è da sterilizzare col fuoco). Ma almeno si ha la coscienza a posto.

Dopo la seconda settimana di sciopero dei netturbini, la questione si è fatta più seria, in quanto i topi si sono organizzati ed hanno comunque cominciato a vandalizzare le opere d’arte ormai in piena putrefazione. E vagli a toccare le opere d’arte, ai francesi! Continuando i topi a infierire sui sacchi, bucherellando e trascinando ovunque i loro contenuti, i cittadini hanno cominciato a fare ricerche su ricerche su come smaltire l’immondizia con tecniche fai da te. Ora, essendo la maggiorparte di loro contraria al compostage, hanno cominciato a cercare esempi da copiare e la prima cosa cui è venuta loro in mente è stato di consultare il sito del comune di Roma. Ma anche li’ si sono resi conto che non ce la potevano fare, che non sarebbero mai riusciti ad emulare la loro città antagonista in quanto a Roma ci sono i cinghiali, ma a Parigi i cinghiali non ci vengono perché si mangia male e non si trovano materassi o cuscini vicino ai cassonetti dove riposarsi dopo una bella scorpacciata.

Molti hanno cominciato a corteggiare i piccioni, una volta nemici giurati dei cittadini, i quali però, memori delle persecuzioni pregresse si guardano bene dall’accettare anche la benché minima buccia di mela messa sui davanzali. E così anche i corvi, animali estremamente intelligenti e pertanto, molto molto diffidenti. Poi con tutto quel ben di Dio in strada, perché rischiare di essere catturati da un umano ed essere obbligato a smaltirne i rifiuti, magari pure in gabbia?

Pare stiano proliferando le adozioni di maialini onnivori, soprattutto le razze nane. Quanto agli escrementi lasciati dalle bestiole dentro gli appartamenti, sono state escogitate palette per la raccolta e, dato il caos, è tollerato rovesciarne il contenuto direttamente in strada, dalle finestre.

Finalmente, c’è chi invece mantiene la calma e suggerisce atteggiamenti positivi persino in mezzo alla monnezza.

Dispiace dirlo ai Francesi che sia sempre lei, Carla Bruni, che con la sua classe e la sua ironia si fa fotografare in equilibrio su un montarozzo di immondizia, annunciando l’arrivo della primavera, evocando così le parole di Fabrizio de André: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior!

(Carla Bruni Instagram)

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IN CASO D’INFORTUNIO

Qualche settimana fa, ho avuto un infortunio: cadendo stupidamente su un marciapiede, mi sono fratturata la tibia, proprio sotto al ginocchio. A parte il dolore cane sul momento e pure dopo, la cosa si è rivelata molto più complessa e rognosa di quanto pensassi. Anche perché io ho pure un’età e, per quanto cerchi di nasconderla soprattutto a me stessa, in queste circostanze lei si dichiara senza che io possa farci niente. Certo la faccia contratta dalla sofferenza non ringiovanisce nessuno e le creme lifting-24 ore si smagnetizzano non appena ti lasci andare ad una sana smorfia di dolore.

Mentre ero sdraiata per terra perché avevo male pure a respirare, alcuni passanti volevano portarmi subito ad un centro medico annesso ad una casa di riposo. È vero, era il centro medico più vicino ma io, non appena ho realizzato, con un crampo bestiale agli addominali, ho fatto una torsione dolorosissima e mi sono seduta eroicamente sul marciapiede, fingendomi miracolata e insistendo che, forse, un comune pronto soccorso andava ancora bene.

Al pronto soccorso, mi spediscono in sala raggi dove leggo, con orrore, che il primario radiologo è il padre di un carissimo amico di mio figlio. Con orrore, perché mi viene in mente che proprio quel giorno sarei dovuta andare a fare la ceretta e invece non avevo fatto in tempo! Conoscere quell’uomo in quella circostanza e per di più con i peli era una cosa assolutamente da evitare. Mi guardo intorno e, inchiodata alla barella, cerco con lo sguardo un’infermiera e finalmente riesco a chiamarne una. Quando questa si avvicina, confidando su una certa complicità femminile, le chiedo a bassa voce se per caso può portarmi una lametta da barba. Lei mi fissa e senza dire niente si allontana, per essere rimpiazzata subito dopo da un medico con la faccia allampanata, la classica faccia di chi a che fare con gli squilibrati, che mi domanda con discrezione se sto bene, se mi sento depressa e se ho bisogno di qualcosa. Una lametta… vorrei dirgli, ma so che non è aria. Rifiuto la pillolina che il medico vorrebbe darmi. Comunque, finalmente entro in sala raggi, dove c’è invece una dottoressa che mi gira e mi rigira senza curarsi della peluria e nemmeno tanto del mio trauma. Il padre del ragazzo per fortuna è altrove. Il responso è quello che vi ho detto: frattura della tibia aggravata dall’osteoporosi dell’età… Il colpo più duro alla mia vanità.

Rientro a casa in pompa magna, su una sedia a rotelle, con un tutore rigido e un paio di stampelle, non senza essere passata prima in farmacia a comprare integratori per la calcificazione, per l’elasticità dei tendini e, già che c’ero, un po’ di collagene e acido ialuronico per le articolazioni (bugia).

Inizio subito a fare i conti con l’assoluta mancanza di autonomia. Devo stare a riposo il più possibile ma decido di voler gestire da sola i miei momenti di intimità. Vietato chiudersi a chiave, comunque, non sia mai si verifichi un nuovo incidente (e che sfiga, penso!) e i miei sorveglianti non possano soccorrermi. Così imparo subito a trascinarmi in bagno sulle stampelle, ignorando che esse sono oggetti dotati di vita propria e che cadono ogni qual volta che tu le appoggi al muro con un fracasso infernale.  A quel punto, tutti quelli che sono in casa accorrono, credendo che tu ti sia sfracellata a terra e aprono la porta del bagno, in preda all’ansia, senza bussare…

Ma la cosa più drammatica è la doccia o il bagno.

Da quando abbiamo la mania della casa minimalista, facciamo a meno o riduciamo al minimo i porta-asciugamani o i ganci per gli accappatoi, quando invece, in questa occasione, una parete attrezzata per le scalate sarebbe stata perfetta. Ho litigato anni per tenere il bidet che in Francia è superfluo, figuriamoci come avrebbe impattato sul nostro equilibrio coniugale l’aggiunta di ammennicoli nel nostro bagno. Invece questo luogo è spoglio, a parte una mini piscina d’acqua nella vasca per far bere i gatti, attrezzo non poco ingombrante che leviamo e rimettiamo ogniqualvolta dobbiamo farci una doccia o un bagno. Si, i nostri gatti si rifiutano di bere nella ciotola in cucina e preferiscono saltare nella vasca e dissetarsi a volontà. Questo comporta che dobbiamo tenere sempre aperta la porta del bagno altrimenti loro si arrabbiano e ci distruggono casa. I nostri gatti, l’avrete capito, ci comandano a bacchetta.

Garibalda controlla che nella vasca ci sia la sua piscina

E comunque, per tornare al bagno minimalista, non c’è mai un appiglio per tenersi, un bel maniglione per aggrapparsi che nel mio caso sarebbe tanto utile però si sa, il maniglione è antiestetico, per non dire da vecchi, quindi devo arrangiarmi.

La prima volta che ho annunciato che mi sarei fatta un bagno caldo invece che una rapida doccia, senza l’aiuto di nessuno, a casa mia c’è stato il panico. Tutti a descrivere scenari terribili, una scivolata, il rumore sordo della testa contro la rubinetteria, la commozione cerebrale, l’altra gamba in mille pezzi… Dopo aver azzittito gli uccelli del malaugurio, comincio a sistemare tatticamente tutti gli attrezzi a disposizione, sedia a rotelle, stampelle e sgabelli vari, accappatoio, asciugamano per i piedi, asciugamano per la testa, mentre in sottofondo mio marito continuava a dirmi che era una follia. Ad un tratto lo vedo che messaggia con qualcuno.

A chi scrivi? – gli chiedo

Mi accerto che il portiere sia nei paraggi – risponde serissimo. Da bravo ingegnere, è un uomo previdente, magari sta già progettando una gru fatta in casa per ripescarmi sul fondo della vasca. E invece…

A cosa ti serve il portiere?

Nel caso tu abbia un incidente nella vasca.

Vorresti chiamare il portiere per farti aiutare a tirarmi su dalla vasca?

Da solo non ce la farei. In più lui ha un sacco di amici nel quartiere, nel caso

Nel caso cosa? Non ce la faceste in due a tirarmi fuori dall’acqua? Mica sono l’orca marina di Free Willy! Ma secondo te, posso IO farmi vedere nuda e magari pure infortunata a tutti i portieri del vicinato?

Tu non te ne accorgeresti perché saresti svenuta e non ti renderesti conto di niente. Ti ritroveresti nel tuo letto coccolata, asciugata e vestita…

“E magari le mie foto girerebbero subito dopo sui siti… per amatori del genere: attempate e fratturate!

Lo guardo con odio. È vero, stando ferma avrò preso un paio di chili ma da lì a pensare che, per sollevarmi, occorrano tutti i portieri portoghesi del quartiere… è da infami.

In tutta risposta, mi sono chiusa a chiave, con la speranza di rendere difficoltosa ogni eventuale irruzione di estranei e, dopo varie acrobazie, mi sono goduta un magnifico bagno, circondata da bottiglie e bottigliette di shampoo, balsamo, creme e l’immancabile candela al gelsomino.

Nei momenti in cui chiudevo l’acqua per qualche minuto (mi sono scialata con ettolitri d’acqua come le cascate del Niagara, mi perdonino gli ecologisti e quello zozzone di Brad Pit), sentivo il suono dei messaggi proprio dietro la porta del bagno. Il mio consorte doveva essersi seduto là dietro, in attesa dello schianto, per poi potermi dire: te l’avevo detto.

Invece sono stata bravissima: come un polpo che se la svigna da un acquario, sono uscita dalla vasca attaccandomi alle mattonelle con invisibili ventose e aggrappandomi a lembi dell’accappatoio appeso all’unico gancio sopravvissuto alla logica minimalista della casa finto-giapponese. Queste manovre da octopus mi hanno permesso di sedermi sul bordo senza danni collaterali. Da lì è stato un attimo. Si fa per dire. Intanto, muoversi con una gamba immobilizzata a 90 gradi vuol dire fare la donna-compasso e calcolare sempre un raggio di rotazione di circa un metro e mezzo (secondo le equazioni esponenziali di mio marito), praticamente la larghezza del mio bagno. Poi, una volta in secca, asciugati, metti il tutore, togli il tutore perché altrimenti è impossibile vestirsi, rimetti il tutore, allontana gli sgabelli, riavvicina gli sgabelli… un bagno di sudore! Finalmente riguadagno la posizione verticale grazie alle grucce e apro la porta. Mio marito è contento dopo tutto ma, conoscendolo, un po’ deluso per non aver potuto provare la macchina dei soccorsi studiata nei minimi dettagli insieme con i suoi compari portoghesi. Ai suoi piedi, fuori della porta del bagno, ci sono anche i nostri due gatti, venuti ad assistere alle eventuali operazioni di salvataggio (i nostri gatti adorano impicciarsi quando succede qualcosa in casa), ma soprattutto impazienti di verificare che la loro riserva d’acqua sia di nuovo al suo posto. Mi passano accanto e mi annusano con aria di disgusto: sono troppo pulita e profumata per loro che invece preferiscono l’odore di moffetta che avevo prima del lavacro.  Mio marito, lo schiavo N.1 nella gerarchia della schiavitù dei nostri felini, interviene immediatamente per ripristinare la vasca con acqua pulita e fresca.

Mazzini, il re degli asciugamani

Il bagno è una baraonda ma, per una volta, me ne frego e mi dirigo zoppicando verso il divano davanti a Mad Men, dove si concentra tutto il mio regno domestico da quando sono caduta. Non mi resta che farmi coccolare e riverire, unico vero privilegio… in caso d’infortunio.

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E dopo i virologi… siamo tutti ginecologi!

Scopro con sorpresa, che esistono nuove malattie femminili dolorosissime e lo scopro, non perché io sia abbonata a riviste di medicina o perché me ne abbia parlato qualche conoscenza colpita da questi morbi, bensì grazie ad alcuni uomini davvero speciali. Non medici, scienziati del campo, ma fidanzati o compagni o mariti di alcune di queste sfortunate. Uomini famosi, rockstar tipo Damiano dei Maneskin che di questa lotta ne hanno fatto una crociata (se vi regge la pompa e volete approfondire: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/05/14/vulvodinia-ecco-cose-la-malattia-di-cui-soffre-giorgia-soleri-la-fidanzata-di-damiano-dei-maneskin/6197582/; https://www.repubblica.it/salute/2021/08/24/news/endometriosi_soleri-315169390/)

È soprattutto grazie a lui e al marito di una nota attrice, che i quotidiani e le riviste femminili si sono uniti a questa campagna di sensibilizzazione approfondendo temi come queste patologie che colpiscono la parte più intima delle donne, che, per(s)fortuna sono toccate ad un’influencer e ad un’attrice. Già perché, se così non fosse stato, il resto delle donne con le stesse sofferenze, i dolori doveva tenerseli senza fare un fiato, pellegrinando da un anonimo dottore all’altro in cerca di una terapia.

Ai giornalisti, dopo mesi di articoli sulla pandemia, non è parso vero di cavalcare l’onda ginecologica, prodigandosi in spiegazioni dettagliate e descrizioni spaventose di quello che succede in quei pochi centimetri quadrati del nostro corpo, sempre al centro di curiosità, desiderio, ossessione e tabù, ora pure bersaglio di afflizioni deturpanti e invalidanti. Malattie con nomi mostruosi in grado di tenere alla larga anche i più temerari, tipo neuropatia del pudendo, che sembra un gerundio spagnolo e invece fa vedere le stelle. E non di goduria. Senza parlare del fatto che i maschi potrebbero restare traumatizzati da questi scenari e quindi… perché, ancora una volta, contribuire a descrivere la nostra preziosa arma segreta come una pianta carnivora?

Leggendo i sintomi di queste patologie, mi viene il dubbio che anche io devo averne sofferto in passato, seppure periodicamente e probabilmente non con l’intensità di queste ragazze al centro di questi calvari, celebrati mediaticamente in questi ultimi mesi. E non solo io. Probabilmente anche mia madre, quando si contorceva per i dolori al basso ventre e mi urlava di sparire perché in quel momento non voleva nessuno in mezzo ai piedi. A casa si parlava di endometriosi, ma lei non aveva alcuna idea dell’anatomia femminile e neanche le importava più di tanto, tranne che tutto laggiù funzionasse, cosa di cui era certa, dato che aveva dato alla luce due splendide figlie come me e mia sorella. Anche il suo medico di allora non stava lì a dilungarsi su quello che succedeva e dove succedeva. Le donne della sua generazione non ci pensavano proprio a visualizzare ciò che era stato nascosto dalla natura, anzi, preferivano ignorare e lasciare che i dolori vagassero da quelle parti a loro piacimento, purché ad un certo punto cessassero e non fossero indicatori di cose davvero gravi.

Noi, una generazione dopo, avevamo conservato un certo pudore e, nel descrivere le fitte dolorosissime, ci spingevamo a descrivere l’insieme di tali dolori con una parola magica: le coliche ovariche, laddove colica definiva in modo scientifico l’intensità, mentre ovarica era un aggettivo trasgressivo perché da ovaio-a-apparato-riproduttore- a-fare sesso per riprodursi, era un attimo ed era già da femministe sfegatate.

Quando ero giovane io, c’erano ancora dei tabù insormontabili. Alla prima mestruazione, vissuta con dolore e sgomento perché nessuno mi aveva detto niente, mentre ero stata fino ad un’ora prima a picchiarmi selvaggiamente con il vicino di casa nel cortile, mia madre mi liquidò: non è niente, sei diventata signorina.

Ricordo che, interdetta, osai chiedere:

scusa… che vuol dire che sono diventata signorina? È una cosa bella o brutta?”

 E lei:

Vuol dire che se non fai attenzione resterai incinta e farai dei figli a quattordici anni e ti rovinerai la vita” e subito dopo riprese a fare le sue solite cose, ignorando la crisi di panico che mi stava soffocando.

Ora, non che io fossi completamente all’oscuro di quello che avveniva intorno ai tredici anni a noi ragazzine. Madre Natura si comportava come una strega con noi, ogni mese ci faceva sanguinare e contorcerci dai dolori. Però santo cielo, da lì al terrore di restare incinta se non avessi fatto attenzione! E ancora: esattamente, cosa voleva dire non fare attenzione? Fare i tornei di braccio di ferro con i maschi che erano ancora alti una spanna meno di noi? Giocare solo con Ken invece che con Barbie? Scambiarsi le camicie a scacchi con i ragazzi ancora intrise dei terribili ormoni maschili adolescenziali?

Mia madre si comportò come una Sibilla: dato il verdetto, sparì in cucina.

Naturalmente io divenni signorina il 26 di giugno, inizio delle vacanze dopo gli esami di terza media, qualche minuto dopo l’arrivo nella casa del mare. Erano mesi che sognavo quel momento per tuffarmi in acqua dopo dieci mesi di inverno. Invece mi ritrovai a scendere in spiaggia vestita come un pensionato, con un paio di bermuda indossati sopra delle mutande gigantesche per poter contenere quelle scialuppe di salvataggio che erano gli assorbenti dell’epoca. O almeno quelli che comprava mia madre.

Il massimo che mi fu concesso fu di restarmene seduta sotto l’ombrellone per una settimana (tale era il periodo di quarantena del ciclo a casa nostra), a leggere i giornalini che mio padre mi comprava pietosamente. Il pover uomo non era assolutamente preparato a quell’evento ed era capace di chiedermi, tutti i santi giorni, perché non facessi il bagno con quel bel mare. La prima volta che mi vide conciata in quel modo, tipo la sora Ceciona, me lo chiese con un’aria così dispiaciuta che era evidente che non mi stesse prendendo in giro. A quel punto, mia madre intervenne prontamente:

non vedi che ha mal di pancia per via del cocomero che ha mangiato ieri sera?”

Mio padre naturalmente si azzittì, un po’ interdetto perché non ricordava affatto che la sera prima fosse stato servito del cocomero a tavola. Oppure era stato servito, ma non a lui. In tutti i casi era meglio tacere. Per anni andò avanti la storia del cocomero, prima con me poi, dopo un paio di anni, con mia sorella. E certo mio padre deve aver pensato, ‘ste due figlie tanto svelte non devono essere, se si ostinano a fare indigestione di cocomero e precludersi il bagno per un terzo delle loro vacanze! Ma forse non era tanto sveglio nemmeno lui.

Ma mia madre preferiva farci passare per ritardate piuttosto che per svergognate e la messinscena andò avanti per anni.

Le famose scialuppe…

Tralascio qui i dialoghi tra mia madre e le vicine di casa o le zie sul fatto che noi avessimo sviluppato… costruzione che presuppone un complemento oggetto: sviluppare una nuova teoria, sviluppare un orecchio assoluto, etc. Noi magicamente sviluppavamo, punto.

 Diventate signorine, io e mia sorella cominciammo a mettere su le tette o le zinne, come si chiamavano in gergo. A casa invece si diceva che ci stessero crescendo le mammelle, in onore della loro funzione principale: allattare i piccoli da brave mammifere. La parola ‘seno’ veniva impiegata solamente in contesti tipo reggiseno, oppure seno e coseno negli esercizi di algebra, che mia madre, disturbata da questo vocabolario, si chiedeva perché avessero dovuto scegliere queste due ambigue definizioni. E francamente me lo chiedevo pure io perché in classe, per 5 anni, i maschi non facevano altro che sghignazzare. Al giorno d’oggi, alla parola ‘seno’ i maschi non producono neanche mezzo grammo di testosterone, tanto sono anestetizzati dal vederlo ovunque, tra un po’ anche sulle istruzioni di montaggio dei mobili IKEA.

Tornando alle mammelle, io e mia sorella non abbiamo deluso le aspettative genitoriali in fatto di allattamento dei figli. Siamo state due autentiche mucche da fiera agroalimentare, e i bambini attaccati a noi come cuccioli di koala fino ai due anni, rischiando di diventare patologici mammoni se non fosse stato per l’intervento salvifico dei padri, che hanno interrotto questa pratica da allevamento intensivo.

Ora, fermo restando che i tempi sono cambiati e che nutro una forte empatia per le donne che soffrono per questi disturbi, ammiro ancora di più Damiano dei Maneskin che, sul problema ginecologico della sua ragazza ha scritto pure una bellissima canzone. Non so se la sua donna ne sia restata lusingata, ma immagino proprio di sì, non era certo quella un’ode ad un’unghia incarnita!

Io però, al suo posto, mi sarei incazzata come una biscia se il mio fidanzato fosse salito sul palco a sbandierare le mie infiammazioni intime, forse risolvibili consultando un bravo specialista, invece di cantarla al pubblico di Sanremo, che però si è sentito coinvolto fino in fondo da questa tragedia regalandogli una standing ovation. Ma l’ammirazione per Damiano cresce perché, contrariamente a quelli che hanno il chiodo fisso, lui va oltre e lancia un messaggio quasi mistico e di trascendente speranza: che l’amore può fare a meno del sesso, oppure che il sesso può essere tante cose, che si è sexy anche se si è un po’ acciaccate e che un giorno anche l’astinenza forzata passerà, che magari uscirà fuori un vaccino e che comunque, si invecchierà insieme e la prossima canzone sarà sulle vampate della menopausa!

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GLI ASTRI ODIANO IL CANCRO

I primi giorni di gennaio, le persone che mi circondano e che hanno già dato un’occhiata all’oroscopo del nuovo anno, evitano il mio sguardo e qualsiasi commento che riguardi il Cancro, il mio segno zodiacale. Da anni infatti, ci fosse stata mai una volta che nelle rubriche o nelle riviste specializzate in previsioni astrali sia comparsa la seguente dicitura: segno fortunato, il Cancro. Mai!

Addirittura per questo 2019, Paolo Fox, avvezzo a predire sciagure e malasorte, ha avuto talmente pena dei cancerini che ha esordito il suo lungo oracolo con il titolo: un pensiero agli amici del Cancro (sottinteso: che quest’anno saranno particolarmente sfigati, lo dice poco dopo nel capitolo dedicato a questo segno).

Ora è vero che Paolo Fox non ci azzecca sempre, mi dicono, anzi, ma cazzarola quest’anno l’oroscopo che mi riguarda deve essere pestilenziale.

Tanto per cominciare, tranne la Luna, amica del Cancro ma pur sempre lunatica che spesso se lo dimentica, ci fosse un pianeta, uno solo, che ci dia una mano. Giove transita nello Scorpione oppure nei Pesci? Mercurio è in congiunzione con Venere? C’è un’eclissi su Marte? Sono sempre cavoli amari per il Cancro, vai a capire perché. Bisogna pero’ fare una distinzione: ci sono i cancerini di giugno, che in genere la sfangano a questo influsso malefico, e i nati in luglio che invece non hanno proprio speranze.

Ma il peggiore di tutti i nemici del Cancro è Saturno. Saturno contro sta sempre contro i cancerini, pare che lo faccia apposta, è capace di cambiare pure orbita per crearci degli ostacoli insormontabili. Ecco lo scenario. L’amore: Saturno odia l’amore, di chicchessia, tanto più del Cancro. Lavoro: Quest’anno, cari Cancerini, disoccupazione e vacanze par tutti. Salute:  Di ferro avrete solo quello di cavallo da toccare incrociando le dita, sperando possa fare qualcosa per voi. A proposito: avete fatto una nuova assicurazione sanitaria?

 

 

L’orbita di Saturno è diventata Cancrofoba e gli astronomi non si pronunciano per non seminare il panico. Ora perché questo pianeta ce l’abbia tanto con il Cancro non è dato saperlo, ma che sia un isterico è cosa ben nota e io un’idea ce l’ho pure.

Saturno ha appreso dagli astrofisici della NASA, che per ripicca fanno l’oroscopo ai corpi celesti, che col tempo perderà i suoi anelli. Yes! Uno shock per questo pianetone arrogante che si sente il re della galassia con la sua criniera di anelli e che invece sa di essere destinato a diventare calvo come Marte, Giove e tutti i suoi compari. Di certo non deve averla presa bene e, seppure la perdita della chioma avverrà tra qualche miliardo di anni, che a noi pare un’eternità, invece per lui è questione di un attimo, visto come sono volati i milioni di anni che ha sul groppone.

Ora a parte il fatto che io non posso che godere della sua futura sorte (ma purtroppo non potrò gioirne quando la tragedia accadrà), mi chiedo cosa possano avergli fatto i cancerini per accanirsi così tanto su di loro.

Decido di fare un salto indietro per scoprire i cancerini famosi certificati, ovvero registrati in una qualche anagrafe del tempo.  Scopro con orrore che il cancerino più antico e più famoso è Giulio Cesare. Li mortà! Saturno ha tanto remato contro che è stato assassinato proprio da chi non se lo sarebbe mai aspettato! Una vita gloriosa vanificata dall’astro inanellato più infame dell”universo.

Giulio Cesare: quoque tu, Saturno?

 

E tra quelli che sono venuti dopo,  cui Saturno ha messo non un bastone bensì un fascio di baobab tra le ruote,  c’è Nelson Mandela. Stai a vedere che oggi si scopre che l’astro è pure un po’ razzista, che di questi tempi non stupirebbe. Mandela ha tenuto duro per il suo popolo e solo per questo ha vinto la sua battaglia, perchè quelli del suo popolo fortunatamente non erano tutti del segno del Cancro e sono stati aiutati da astri più gentili.

Pure il Dalai Lama è nato a luglio e, a parte l’amicizia con Richard Gere, non è che vorrei proprio essere al suo posto…

Copio paro paro l’oroscopo di questa settimana, parafrasandolo per farvi comprendere cosa ci attende:

Permangono (il che vuol dire che stanno là già da un pezzo) gli aspetti di opposizione di Sole e Marte (e noi del Cancro ne paghiamo le conseguenze), che drenano le vostre energie attive e seminano ostacoli (SEMINANO OSTACOLI, un sadismo pazzesco), tanto imprevisti quanto irritanti (eufemismo) sulla vostra strada.

Vi sorreggerà Venere (quando sarete oramai barcollanti per le troppe mazzate ricevute), un pianeta con cui siete in sintonia (quando pare a lei e quando non ha di meglio da fare), che calmerà le vostre ansie e vi tirerà su il morale, proprio quando non ne potrete più (che carina!).

Allora, con mente e cuore più tranquilli, riuscirete a trovare la soluzione ai vari problemi quasi senza accorgervene (un po’ come avviene con le supposte).

Il Cancro non è bello a vedersi quanto il segno della Vergine, una gnocca della Madonna,  o i Gemelli o il Sagittario con gli addominali scolpiti. Come pure lo Scorpione, può avere un aspetto ripugnante oppure, nella versione erotica  somiglia a un 69. Questo dovrebbe ringalluzzirci, ma la maggiorparte dei cancerini non riconosce questo simbolo e passa direttamente a leggere l’oroscopo del Leone, un gran privilegiato dagli astri.

Il Cancro può essere assimilato ad un granchio oppure ad un gambero di fiume (saporito ma mai quanto il vero gambero), con due chelette da niente che qualche volta sanno pizzicare al posto giusto e questo per taluni è insopportabile. E’ un segno pigro, e dai pigri che male ti puoi aspettare? Paladini di giustizia, non amano attaccare (ma sanno ben difendersi) nè vendicarsi perchè è troppo faticoso.  In compenso, sanno aspettare per anni, senza fare una grinza,  il cadavere del nemico che passa sul fiume. Solo allora si decideranno a cambiare posizione, ma sempre senza tanti sforzi.

Eppure tra i cancerini ci sono schiere di artisti (Rembrandt, Degas, Modigliani, De Chirico, tanto per citarne qualcuno), scrittori come Hemingway, Kafka o Proust,  animi nobili e meno nobili, come Enrico VIII (ma costui è di giugno), patrioti famosi come Mazzini e Garibaldi, ricchi sfondati come Rockefeller.

E poi ci sono io. Che quest’anno ho deciso di ignorare gli astri perché confido nel riscaldamento globale, nelle variazioni dell’asse terrestre, nel passaggio imprevedibile e perturbatore di asteroidi e comete e nell’oroscopo cinese, che è sempre più benevolo ma solo perchè nessuno ci capisce niente.

Quindi sfido Saturno e ricomincio da me, ricomincio l’anno 2019 di martedì e il mio blog di venerdì, con maggiore ostinazione se è vero che … nè di Venere, nè di Marte non si sposa e non si parte, non si da comincio all’arte!

Buon 2019!

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METTI UNA NOTTE D’ESTATE… UN’ECLISSI

 

Eravamo davvero in molti a guardarla. Forse non tanti quanti in quell luglio del 1969, quando uno di noi arrivò persino a toccarla. Ogni montagna, ogni tetto o spiaggia erano diventati osservatori dai mille telescopi puntati verso il cielo, perchè i nostri occhi avevano poteri eccezionali ed erano capaci di bucare la notte, incrociando lo sguardo dei rapaci, loro stessi stupefatti da quell’apparizione.

Ci siamo ritrovati in tanti a cercare un punto speciale da cui meravigliarsi, finalmente, dopo tanto tempo in cui avevamo dimenticato di esserne capaci. Eravamo quelli di sempre, bambini che raramente avevano alzato gli occhi in vita loro per vedere gli astri, nessuno glielo aveva mai insegnato, molto più abili a guardare in basso il piccolo schermo dei telefonini. E’ vero, tutti fotografavano maneggiando costosi cellulari, ma lei era lontana e irraggiungibile per quegli stupidi oggetti che cercavano di intrappolarla. Così la maggiorparte rinunciava e cominciava a parlare, perché l’eclissi rompe il silenzio e lo stupore fa aprire la bocca a suoni ancestrali, anche volpi e barbagianni saprebbero riconoscerli.

Nel nostro osservatorio in montagna, una montagna facile da scalare, si stava accalcati. Nel buio totale, non si riusciva a distinguere i volti ma solo voci, di qualcuno che ne sapeva un po’ di più e voleva raccontarlo, di bambini eccitati dalla notte, di ragazzi che si scambiavano una dichiarazione d’amore, giuro, senza uozzap e messaggini, ma faccia a faccia, frasi tipo: Sono venuto fin qui solo per te…, per vederti sotto questa luna…

Eccola, finalmente evocata, chi ha scelto di chiamarla così era un poeta e meriterebbe un premio!

E in sottofondo la musica dei Pink Floyd, the Dark Side of the Moon! Non importa da dove venisse, se da Spotify o da una cellulare, no troppo potente, ho pensato, immaginandomi uno di quei vecchi stereo portatili con altoparlanti posato sull’erba, uno di quei pesantissimi attrezzi che ci trascinavamo dietro nei nostri picnic  di Ferragosto. Una stretta al cuore,  i ricordi ma si sa, la luna smuove anche quelli e bisogna assecondarla.

D’un tratto, lei è diventata più nitida, più luminosa. Il nostro pianeta rotondo si spostava e lei si accendeva. I mari avranno ripreso a schiumare maree, i  bambini a nascere tutti insieme, chi più testardo di altri, ma lei sarebbe stata di tutti.

All’improvviso, un silenzio innaturale ha fatto irruzione nella musica e in tutto quel cicaleccio confuso. Tutti hanno chiuso gli occhi per esprimere un desiderio. Non abbiamo saputo fare altro che questo, nel nostro primitivo incontro con il divino, noi, uomini delle caverne che non sapevano ancora pregare ma sapevano già di poter chiedere.

E mi sono chiesta se da lassù, dalla luna, sia stato possibile vedere l’ombra sfilacciata dei nostri capelli spettinati dalla brezza o da quel moto di rotazione e traslazione di cui da sempre siamo in balìa. Ho cercato di vedere proiettate nel cielo le sagome dei bambini che si lanciavano in aria dalle altalene, nel buio, le braccia delle levatrici che presentavano i nuovi nati e l’esercito di draghi lattiginosi di tutti i  nostri desideri, che quello è il colore dei sogni, che in quell momento magico prendevano il volo.

 

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L’ENIGMA DELLA PILETTA

Dalle mie parti, dicesi ‘piletta’ il lavandino di servizio dove in genere si lavano gli stracci. Ricorda, in piccolo, il lavatoio delle lavandaie ma il concetto è l’opposto: quelle erano delle serve che si rompevano le reni, oggi, in alcune zone dell’Italia, è l’oggetto cult della casa.

Vi chiederete come mi vienga in mente di scrivere su un lavandino.  In realtà, la piletta è molto più di una semplice vaschetta dove si sciacquano gli stracci sporchi: è uno status symbol, un codice elitario, un privilegio che non tutti possono concedersi e che, pertanto, va ostentato, ma nessuno sa veramente perchè. Nei nostri banali appartamenti, il posto per la piletta è un sogno, un’utopia. Bisogna sempre sacrificarla per un letto o per il bidet, ma se qualcuno riesce ad istallarla anche in un bilocale, magari nel corridoio o in un angolo della cucina, prova un orgoglio indescrivibile.

Mi stupisco sempre  dell’intensa attività edilizia nei paesi dell’Italia centrale e meridionale, luoghi dove si piange sempre la crisi. Infatti, ad ogni mio ritorno, constato la presenza di nuovi edifici, di neo villette, o di trasformazioni/ampliamenti di strutture già esistenti. Le opere immobiliari, da noi, vanno esibite, perchè sono il risultato di anni di sacrificio, di progetti familiari intergenerazionali, di competizioni sociali che hanno un grosso impatto sulla politica e la vita cittadina. Nell’evoluzione immobiliare dei nostri paesi, si inizia in genere dall’appartamento con almeno due camere da letto, il salone, cucina e bagno. Concetti come il monolocale o lo studio equivalgono a crimini che infangherebbero di vergogna tutta la famiglia. Si va quindi avanti per gradi: la villetta bifamiliare, la villetta tuttapersè, il villone con cinque stanze e cinque bagni, con patio, statue nel giardino e la piscina.

Le nuove dimore sono caratterizzate in genere da un dispendio notevole di soldi e di energie, dallo sfarzo di materiali preziosi, marmi, stucchi, ceramiche decorate a mano, pietre antiche per caminetti e portali, e chisseneimporta se sui divani e sui tavoli trovate ancora delle belle incerate di plastica! Una volta messo piede nella proprietà, è in genere la padrona di casa che si occupa di fare il tour guidato della reggia. Il marito ha lavorato duro e guadagnato bene per poter realizzare il castello, ma non ha potuto mettere bocca su niente, neanche sul suo bagno personale. La moglie, consigliata spesso da madre e sorelle (persone esterne no, perchè sono invidiose!), ha provveduto alla scelta dei colori e delle piastrelle, basandosi non sul gusto personale ma su quanto premeditato dai fornitori di zona, veri responsabili di tutte le accozzaglie decorative delle aree di loro competenza.

Funziona così. I proprietari si recano nei depositi per scegliere le mattonelle, i pavimenti e le pitture. Il marito, in genere, fa semplicemente l’autista e non viene mai interpellato, semmai azzittito nel caso in cui si permetta di obiettare o esprimere una preferenza. Nel momento in cui entra nel negozio, diventa trasparente. Riacquisterà la sua forma tridimensionale quando si risale in macchina per tornare a casa, con la sola eccezione dell’attimo in cui sarà richiesta la carta di credito o, meglio ancora, la firma sul libretto degli assegni. I commercianti edilizi conoscono vita, morte e miracoli di chi abita in paese, le rivalità e le capacità finanziarie di tutti. Durante la scelta dei materiali, sono abilissimi a dirottare gli acquirenti sugli articoli più costosi ma non necessariamente più belli, anzi! Questi negozianti innescano una competizione tra i clienti presenti e gli altri compaesani con frasi del tipo: “Questo parquet è molto elegante… certo… niente a che vedere con quello scelto dalla famiglia Pizzotta, che ho dovuto far arrivare appositamente dal Brasile…”

Le padrone di casa allora, caricano il mappamondo nel loro cervello e, visualizzato più o meno dove si trova il Brasile, ordinano senza esitazione i listoni autoriscaldati della Tasmania, che non sono ancora stati inventati ma che sono sicuramente più chic e più esclusivi delle banali travi brasiliane.

I mariti intercettano le parole Brasile (calciomercato?), e Tasmania (malattia canina?) ma non capiscono assolutamente di cosa si stia parlando, nè osano domandare visto che le donne sono già tanto infoiate sull’argomento. Così tornano ed estraniarsi, aggirarndosi nei capannoni in cerca di una toilette.

La scelta dei materiali, telecomandata quindi dai negozianti, viene effettuata in base ai costi (i più alti possibie) e alla provenienza geografica anche da paesi inesistenti (là si vede l’abilità del commerciante), ad eccezione della scelta della piletta. Qui, la trattativa subisce un rallentamento e la spavalderia dei fornitori vacilla. Nei magazzini, non c’è una grande varietà di pilette, dato che nel resto del mondo il concetto è sconosciuto e i produttori dell’articolo sono limitati. Si rischia che, andando a casa del vicino, si ritrovi la stessa e questo sarebbe imperdonabile.

Per cui i negozianti propongono delle soluzioni personalizzate (custom, pronuncia custom) per evitare questa tragedia, suggerendo cagate pazzesche, tipo pilette con coperchi colorati sullo stile dei cessi moderni, pilette mimetizzate con i mobili della cucina, ma non più di tanto perchè la piletta se deve vedé.

Subentrano comunque altri problemi. Primo: quante pilette istallare in casa? Secondo: dove?

Se alla padrona di casa basterebbe una sola piletta, in un bagno di servizio, la madre e le sorelle sono di ben altro avviso. Almeno una per ogni piano, sennò che fai, ti trascini il secchio degli stracci da un piano all’altro? Vada per due pilette interne e una esterna (il portico ha bisogno di più ripassate e non si puo’ fare avanti e indietro con l’acqua lercia.

Terminati i lavori, l’arrivo di un ospite costituisce finalmente il pretesto per ostentare la sfarzosità della dimora, i preziosi arredi e le ceramiche dipinte a mano. La padrona di casa lo accoglie emozionata, elencando i nomi dei designer, spesso storpiati (Oscar Te La Rende, Roberta nel Camerino, etc.) ed è impaziente  di mostrare il pezzo forte della casa, il blasone della più nobile delle attività domestiche.

”… e soprattutto, abbiamo inserito anche tre belle pilette per gli stracci” –  esulta finalmente.

Nel bagno principale o in cucina, in mezzo a costosi sanitari con rubinetteria cromata a mano, campeggia la mitica piletta, in tutta la sua enigmatica bruttezza.

Perchè ‘sta fissa delle pilette? – mi chiedo esterrefatta. Ricordo lontano di un’epidemia di colera che ha colpito il paese in tempi remoti, quando gli stracci si lavavano nel lavello? Una sorta di riscatto di nostalgiche lavandaie divenute finalmente proprietarie di casa? Un codice erotico, che ricorda il movimento delle lavanderine, chine a strofinare, le zinne in mostra e i fianchi dondolanti, che facevano ribollire il sangue ai padroni? Il mistero resta.

Una cosa è certa: dove c’è piletta, l’uomo non conta una mazza e le casalinghe, tutto sono, tranne che disperate. Da oggi, fateci caso.

 

 

 

 

 

 

 

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MIND FULL o MINDFUL?

Conferenza sulla meditazione a scuola. Studi scientifici hanno dimostrato che i bambini si stressano di meno e ottengono migliori risultati se meditano… Nel corso della conferenza, era necessario che pure genitori e insegnanti meditassero per capirne l’efficacia. Hanno inoltre mostrato le risonanze magnetiche dei cervelli di monaci buddisti, con limitate tracce di attività neuronale, segno di appagamento e di totale mancanza di stress grazie a queste pratiche millenarie.

Ora, mentre queste immagini di scanner scorrevano sullo schermo, ho dato un’occhiata intorno a me ed ho notato che le varie decine di mamme e papà guardavano continuamente l’orologio, perché si avvicinava il momento dell’uscita dei figli da scuola. Durante la meditazione che ne è seguita, non facevo altro che visualizzare e mettere a confronto i cervelli di questi genitori in pena con quelli dei monaci. Questi ultimi, parliamoci chiaro, pregano un sacco,  ogni mattina devono mungere gli yak per fare il burro, mangiano sempre le stesse cose, ma detto ciò, de che se devono preoccupà nella vita?

Immaginavo la risonanza impazzita del mio cervello dato che, oltre ad essere sulle spine perché si avvicinava l’ora di pranzo e non avevo preparato niente, mi scervellavo, appunto, a immaginare tutte quelle materie grigie in azione.

Ad un certo punto, durante la nostra pratica meditativa, hanno mostrato la foto di una grossa fragola, succulenta, rossa e lucida. Dovevamo fissarla per qualche secondo e poi descrivere la prima cosa che ci veniva in mente e le nostre sensazioni. La maggior parte dei partecipanti ha ammesso di aver provato l’acquolina in bocca con tanto di abbondante salivazione.

I miei pensieri, invece: pesticidi, angoscia, prodotto di serra, OGM, non a chilometro zero, non biologico, conservanti, ansia, non equo e solidale, sfruttamento dei coltivatori, ansia, cancro.

Tutti i presenti, quella fragola se l’erano già mangiata anzi, se n’erano mangiato un cestino intero, senza paranoie, ed erano felici e contenti con il loro bolo di saliva in bocca.

A me, la semplice foto di una grossa fragola matura aveva scatenato dei sensi di colpa giganteschi. Eppure mi ero concentrata su tutte le dita dei miei piedi, su quelle delle mani (lo smalto si era scorticato…), avevo seguito il mio respiro dentro la pancia che si gonfiava e si sgonfiava, cercando di pensare a qualcosa di bello e di mandare via i pensieri negativi in colluttazione tra di loro. Niente. Il pesticida aveva sbaragliato tutti e mi si era parato davanti senza un attimo di esitazione.

Ho pensato con invidia, che tutta quella gente a pranzo avrebbe assaporato una bistecca e il mango selvatico del Camerun, mentre io sono diventata vegetariana per non mangiare animali uccisi, che faccio chilometri per trovare prodotti bio trascinandomeli in metropolitana dentro borse riutilizzabili pesantissime, peggio di un carbonaio; che impongo a tutta la famiglia di mangiare broccoli, mele e pere finchè non arriva l’estate e mio marito e i miei figli me li tirano dietro e, quando io mi assento per qualche giorno, riempiono il frigorifero di pomodori all’azoto, salse spalmabili ai nitrati e nitriti, wurstel e hamburger a scadenza ventennale, ciliege del Botswana e merendine coreane al sapore sintetico di aragosta.

Finalmente, con uno spirito mindful, risalgo all’origine di tutte le mie fisime: ma non sarà pure per colpa di ‘sti monaci dal cervello immacolato, se prima di comprà anche solo una patata, mi faccio cento seghe mentali?

Se non ci fossero stati loro ad invasare gli hippies, se non ci fosse stata la minchiata della New Age, gli Hare Krishna ciondolanti e i cibi vegani, la moda dei viaggi in India per ritrovare se stessi, io, con la mia coscienza troppo coscienziosa,  non sarei a questo stadio di paranoia.

Nella sala, mentre la platea medita al suono di campanelle tibetane, mi sfilo dal mio casino mentale e, all’improvviso, mi rassicuro pensando a mia nonna, che è campata novant’anni di serenità all’oscuro di mantra e pratiche esotiche, lavorando sodo e mangiando polenta o gnocchi con sugo di spuntature di maiale fino al giorno prima di morire. Lei, incazzosa e mistica allo stesso tempo, che quando mi vedeva nervosa tirava fuori il mattarello e la spianatoia e diceva: ‘Vieni, annònna, che ti faccio due ravioli” e cominciava ad ammassare. Più che una preghiera, una meditazione ecumenica.

Avessero fatto uno scanner al suo cervello in quel momento, ne sarebbe venuta fuori una nuvola di farina.

La campanella smette di vibrare. Lo so, non sono stata mindful, non mi sono concentrata (io, figuriamoci i bambini!), mi sono distratta ancora una volta. Non ho avuto visioni trascendentali eppure mi sento bene, meglio degli altri genitori in ritardo che schizzano fuori dalla sala per andare a prendere i pargoli scalmanati. Ma anche loro in fondo, mi sembrano felici di recuperare finalmente la loro marmaglia urlante, infischiandosene degli strombazzi delle auto in doppia fila.

Perchè… lasciamola ai monaci tutta ‘sta meditazione. Noi, godiamoci il nostro occidentali’s karma!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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8 MARZO: LA GRANDEZZA DI CERTE DONNE…

Finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di ammetterlo. Si sapeva, altro che se si sapeva, ma nessuno degli interessati ha mai voluto confessarlo. Per paura, per vergogna. Ma chi avrebbe potuto capirli se non quelli che provavano lo stesso sentimento? E nonostante questi individui costituiscano una fetta importante della nostra società, nonostante siano più che una comunità, oserei dire una setta a livello nazionale, si sono sempre nascosti. Oddio, non proprio nascosti ma sicuramente camuffati, per non divenire facili bersagli e per proteggere, il più delle volte, la persona amata.

Li abbiamo aggrediti, umiliati, ricattati barbaramente, denigrati alla prima occasione. Ne abbiamo sparlato lungamente nei nostri salotti, dal parrucchiere o dall’estetista.  Dopo tanti anni di silenzi, di frustrazioni e incomprensioni, qualcuno ha avuto il coraggio di dirlo anzi di fare un coming out sui giornali.

Colui che ha finalmente rivendicato di essere un mammone e di esserlo proud to be, signore, è stato Al Bano. Quante cose dobbiamo, anzi l’intera società deve a quest’uomo! Oramai non si contanto più. La sua voce straordinaria, talvolta insopportabile, ha regalato all’umanità melodie che hanno segnato la vita di ogni uomo in ogni continente, come il Ballo del Qua Qua e Felicità. Ci ha tenuto con fiato sospeso per le sue vicende amorose, un po’ torbide e quindi intriganti, a dire il vero. Prima Romina, con la quale, per alzare due soldi,  riesuma lo storico duo che si è sfanculato quarant’anni fa, ma che è ancora osannato da platee sconfinate di uzbeki e nomadi delle steppe. Questi fans tardivi hanno scoperto la celebre coppia italiana solo dopo il crollo del comunismo e sono ancora in piena fase di isterismo durante i loro concerti. Poi è arrivata la Lecciso, una signora tanto a modino, che partecipa ai reality inondando gli schermi di silicone e del suo inconfondibile stile da contessa inglese.

Insomma, di coraggio quest’uomo ne ha sempre dimostrato tanto, ma nessuno si sarebbe mai aspettato quest’ultimo exploit davanti al mondo. Non è bastata Asia Argento, donna integerrima, una casta puella oserei dire, che ha rivelato finalmente lo scandalo delle molestie sessuali che ha dovuto subire obtorto collo (scusate il latino, quest’oggi) per diventare la grande diva che è oggigiorno.

Al Bano ha volute fare di meglio, esagerare, come suo solito. E con il titolo dell’intervista rilasciata ad un famoso giornale, ‘LA VERA DONNA DELLA MIA VITA È MIA MADRE’, ha rotto il silenzio su un fenomeno tabù che ha costituito il cruccio di intere generazioni di uomini, nonché di battaglie perse da parte di tante donne.

Pare che le parole di Al abbiano avuto una risonanza tale che, lo stesso giornalista che lo intervistava sia scoppiato in lacrime, abbracciandolo, grato, per averlo in qualche modo sollevato dalla responsabilità di dire a sua moglie quello che avrebbe volute dirle da sempre:

“Cara, ti ho sposata ed ho fatto dei figli con te, ma mammà resta l’unico amore della mia vita”.

Lettere scritte con il sangue e mail umide di commozione hanno intasato la cassetta postale di Al Bano, del giornale e della madre di Al Bano, che è la vera grande star di tutta questa storia, che, zitta zitta, come tante altre suocere, ha saputo sbaragliare le due nuore e tenersi il figlio stretto stretto tutto per sè.

Quindi, ancora una volta, grazie Al.

Grazie per questo pensiero inaspettato nel giorno della festa della donna. Fa male sì,  ma almeno è sincero.

E voi, cari mammacchieri, se proprio volete farci un regalo per questo 8 Marzo, lasciate perdere il solito mazzetto ipocrita di mimose. Piuttosto, manifestatevi una volta per tutte. Hasthag: #IosonoAlBano!

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LO ZEN E L’ARTE DI PREPARARE I PANINI

 

In casa mia, persiste una lunga tradizione della farcitura dei panini.

Dalle elementari fino al liceo, non avendo ancora inventato le merendine (ad eccezione del Buondì Motta e della Girella), mia madre doveva scervellarsi x mettere in cartella lo spuntino della mezza mattinata e poi quello del pomeriggio, quando si restava anche al doposcuola. Io e mia sorella eravamo due rompiscatole perché non mangiavamo cose dolci nè formaggi. Si doveva dunque andare sul salato, tipo pane e tonno, pane e pomodoro, la frittata e qualche volta il prosciutto. Il prosciutto naturalmente non era mica il San Daniele! Era piuttosto un tipo nostrano, quello dei contadini, saporito per non dire salato, le cui fette erano belle erte e ti saziavano come una bistecca.

Prima di metterlo nel panino, mia madre lo tagliuzzava con le forbici per paura che ci strozzassimo con i fili di grasso, retaggio di una sua brutta avventura quando si era vista infilare due dita nella gola da una vecchia zia, convinta che lei stesse soffocando. Questo episodio le aveva scatenato la fobia degli affettati e ora si vendicava sulle nostre merende. Una volta, durante una gita scolastica, un mio compagno di scuola se ne accorse e cominciò a lanciare in giro i miei coriandoli di prosciutto, mortificandomi davanti a tutta la classe. Io ammiravo i miei amici che addentavano con disinvoltura cotolette spesse tre centimetri,  senza segni di soffocamento, esibendo dentature possenti come quelle dei tirannosauri.  Viceversa, loro inorridivano della mia incapacità a deglutire anche solo un po’ di affettato. Da quel giorno, anche il prosciutto fu bandito dal picnic scolastico.

Mia madre dunque, di tutta risposta, prese ad approfittare delle gite scolastiche per esibirsi nell’arte della preparazione dei panini alternativi. A parte la coppa o la trippa (solo il giovedì), la frittava restava un classico, con la scamorza (con moderazione perchè anche quella, cotta, faceva i fili capaci di soffocarci), con le zucchine (solo a partire dalla tarda primavera perchè prima non se ne trovavano) oppure con le cipolle (che spesso barattavo durante il viaggio con qualcosa di meno puzzolente, se ero seduta sull’autobus con il più carino della classe).  La frittata con le cipolle riscuoteva sempre un certo successo e poteva costituire una valida merce di scambio, soprattutto per un panino alla Nutella cha a casa nostra si vedeva raramente.

Crescendo, al liceo, non ne potevamo più di frittate, così mia madre passò ai ripieni più fantasiosi, vedi panini con la parmigiana di melanzane, con l’indivia alla napoletana, con le alici fritte dorate (per il fosforo) o come minimo, con la peperonata. Durante l’inverno, non era raro aprire la rosetta e trovarci broccoletti e salsiccia avanzati dal giorno prima. In quel caso, la temperatura contribuiva a compattare il tutto con il grasso solidificato della salsiccia. Dopo una merenda così, eri esonerata dal fare i compiti o dal partecipare attivamente durante il doposcuola. Ti era permesso di accasciarti sul banco a digerire come un’anaconda.

Seppure disgustati all’inizio, in seguito i miei compagni si dissero pronti ad uno scambio, anche a panino iniziato. Fu così che, grazie ad un baratto, scoprii il Philadelphia (con quel nome straniero mia madre si rifiutava di comprarlo), o il paté di tonno,  molto più chic e digeribili della trippa o dei broccoletti.

Detto questo, capite perchè a casa nostra, il panino è un banco di prova delle nostre doti culinarie. Banditi i soliti ripieni, tipo formaggio e prosciutto cotto, la mozzarella e il pomodoro, che al Nord non sanno di niente, io e mia sorella ci rifacciamo alla tradizione di famiglia, pure migliorata, se volete.

La frittata fa sempre la sua comparsa, anche travestita da omelette (cambia nome a seconda di chi frequentano i figli). Riproponiamo quindi quella con i funghi, i carciofi, le zucchine e i peperoni, in qualunque periodo dell’anno, tanto ora ci sono le serre. Tra le varianti sofisticate del panino ha fatto la sua comparsa il salmone affumicato su un letto di formaggio cremoso, come direbbero i libri di ricette da caghini. Come ripieni alternativi, uova sode, maionese e julienne di carote e peperoni crudi, tutti rigorosamente bio, oppure verdure trifolate con tonno o melanzane grigliate con fettine di emmenthal o taleggio.

In vista di un viaggio in macchina, la cosa si fa più complessa. La preparazione dei panini comincia la sera prima, per fare insaporire le verdure, se non per preparare e far lievitare i panzerotti al forno, variante introdotta da quando la condizione di emigrante si è fatta pressocché definitiva. Il viaggio assume tutto il suo valore simbolico e i panini più che mai, un po’ come il pane azymo per gli ebrei e la loro fuga dall’Egitto.

La vigilia della transumanza, si aspetta che la rumorosissima famiglia si addormenti e, con la calma notturna della notte,  si procede. Mia madre, prima delle nostre gite scolastiche preferiva alzarsi alle 5. Io non vado mai a dormire prima delle 3 per dare il meglio di me per il picnic itinerante.

La mattina della partenza, si fa colazione in mezzo ad un odore di cipolle, spezie e verdure che pare di stare in un souk, che persino i gatti, nauseati, non hanno il coraggio di avventarsi sulle crocchette.

La farcitura dei panini richiede una grande concentrazione, per non sbagliarsi sugli abbinamenti, non sia mai mescoli la scarola in padella destinata alla tiella con il tonno.

Con le mani unte e bisunte, si procede all’operazione incartamento che, oggi, è facilitata dall’esistenza di fogli di alluminio e di plastica trasparente. Quando io ero piccola invece, il panino con la parmigiana di melanzane,  grondante olio fritto e sugo al basilico, si avvolgeva in dieci fogli di carta da pane riciclata e, infine, si sistemava dentro una busta di plastica (da riportare a casa x poterla riutilizzare) per evitare che i libri e i quaderni  si mescolassero a tutto quel ben di Dio. In una fase più evoluta, ricordo che queste squisite bombe biologiche venivano conservate in portapranzi simili a quelli usati dai soldati durante la prima Guerra Mondiale.

Finalmente i nostri panini moderni, avvolti nel Domopack come piccole mummie, vengono sistemati in una borsa termica che li conserverà per tutto il tragitto. Ma ecco che non è passata neanche un’ora da quando siamo partiti, che già qualcuno ha fame e dopo qualche minuto, non si sa come, tutti cominciano ad aver fame, e la macchina è inondata dell’odore della nostra cucina che pare sia venuta, pure lei, in viaggio con noi.

E mentre è tutto uno scartare di plastica e alluminio, come non si mangiasse da secoli, mi ritrovo a guardare nel retrovisore il paesaggio che si dilegua dietro di noi, proprio come la mia adolescenza.


E mi vengono in mente tutte le gite scolastiche, le Pasquette, i centogiorni prima degli esami,  i picnic di ferragosto con gli amici, che non si faceva in tempo a parcheggiare la macchina o il motorino e già si addentava qualcosa o si accendeva la carbonella. E quei viaggi brevi , ma incredibilmente lontani da casa, erano la nostra libertà, il nostro futuro, per sempre on the road, come in America. E i nostri panini, sbocconcellati a morsi impazienti, e i nostri canti a squarciagola, strimpellati  alla chitarra, prendevano già il sapore di sandwich e rock’nd roll!

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